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2006

 

PAGLIA, UN EROE DELL’ITALIA GENEROSA

- Per gli italiani che guardano da lontano, Nassiriya è diventata una parola familiare ma dolorosa. Per voi militari Nassiriya che cos’è, vista invece da vicino?

E’ il luogo del nostro impegno. Un luogo di tristezza, certo, se si pensa ai trentuno caduto italiani, ma anche di speranza. L’Iraq s’è liberata di un dittatore, così come in altre zone, nei Balcani per esempio, le popolazioni si sono liberate da una guerra. Se andiamo a valutare il lavoro compiuto in diverse zone operative, un lavoro che è sempre di ricostruzione dopo i conflitti, ovunque è tornata a rifiorire la vita. Pur tra mille difficoltà. A Nassiriya e dintorni abbiamo costruito ventuno scuole, progettato fogne, consegnato camion e trattori e curato una quantità di bambini. Ma purtroppo in Italia fa notizia solo l’attentato che così ingiustamente colpisce i nostri sforzi e le nostre iniziative di rinascita.

- Dalla strage nel 1961 a Kindu(ex Zaire ora Repubblica del Congo; tredici aviatori italiani trucidati) all’Iraq, passando per il Libano nell’82 e oggi approdando persino in Afghanistan. C’è un filo che lega quasi cinquant’anni di missioni nel mondo?

Il senso stesso della missione. Le missioni servono perché si ha la possibilità di fare qualcosa per gli altri. Altrimenti dovremmo imitare la Svizzera, chiusa dentro i suoi confini, senza troppo badare a quel che avviene nel resto dell’universo. Ma non mi sembrerebbe giusto. E neppure rifletterebbe il carattere solidale degli italiani.

- La Nassiriya del ’93 si chiamava Mogadiscio, e lei vi partecipò. Più somiglianze o differenze fra l’operazione nella Somalia in balia dei "signori della guerra" e quella nell’Iraq infestata dal terrorismo?

Quando cominciò la missione di Nassiriya, e quasi dieci anni dopo l’intervento a Mogadiscio, pensai che le due cose fossero o sarebbero state piuttosto simili. Ma strada facendo, il confronto ha retto. Dalla Somalia siamo andati via, mentre in Iraq siamo rimasti a lungo. E comunque vi resteranno americani e inglesi. Stavolta c’è stata una maggiore continuità.

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- Anche allora furono uccisi giovani in divisa. E lei sopravisse - perdonerà l’espressione -, per miracolo. Che cosa accadde?

Quello che accadde anche ai giorni nostri: un’imboscata. Era il 2 luglio del 1993. Di mattina presto, verso le sei, stavamo controllando il territorio e rastrellando delle armi. L’operazione proseguì per un bel po’. Poi, all’improvviso l’agguato. Allora in Somalia non s’ usavano le bombe, ma si utilizzavano direttamente le persone. Verso le nove si formarono le prime barricate per strada: mandavano avanti le donne e i bambini. Ma alle loro spalle agivano gli aggressori, che cominciarono a spararci. E non poteva esserci alcuna reazione da parte nostra: rischiavamo di colpire donne e bambini.


- Che ricorda del suo incidente?

L’imboscata durò a lungo, e proprio perché non era facile difendersi dalla violenta provocazione. Verso mezzogiorno fui colpito alla schiena da una raffica, che mi prese il midollo. La paralisi fu immediata. Però io riuscii a rimanere lucido. Mi trasportarono prima all’ambulatorio italiano e poi all’ospedale americano, dove mi salvarono operandomi d’urgenza. Ad altri andò peggio. Quel giorno abbiamo avuto tre morti e ventidue feriti.

- Fu il giubbotto anti – proiettile a tradirla?

Il fatto è che all’epoca indossavamo il giubbotto anti – schegge. Vede, anche queste cose adesso sono cambiate. L’esperienza insegna.

- E’ più tornato a Mogadiscio?

No, e mi fa un certo effetto sentirne parlare in tv. Pare che le bande abbiano riconquistato la città, e mi dispiace. Mi dispiace perché sembra che quello che hai fatto, sedici anni fa, non sia servito a nulla. Comunque, in Somalia per rivedere i posti, si, ci andrei di nuovo. Ma per una missione forse avrei difficoltà nell’essere obiettivo.

- Quante possibilità ha di tornare un giorno a camminare?

Non lo so. Naturalmente, io non vivo per quello. Vivo per cercare di far bene e per avere un fisico pronto a un eventuale intervento che mi consenta d’avere un’esistenza, chiamiamola, "normale".


- Ha mai immaginato dove fare la sua prima camminata?

Io uso un’apparecchiatura con degli elettrodi che mi consentono di alzarmi e di ambulare. La prima cosa che decisi di fare, quando cominciai a utilizzarla, fu di mettermi in piedi per salutare la bandiera nel corso di una cerimonia.

- Le scappa di dirsi, magari in un momento di sconforto, "ma chi me l’ha fatto fare"?

Proprio no. Altrimenti non avrei chiesto allo Stato Maggiore di poter continuare questo lavoro né di continuare a svolgerlo anche all’estero. Ammetto: fra lo stupore iniziale di qualcuno che vedeva quest’ufficiale in carrozzina in giro per la Bosnia, per il Kosovo, per l’Iraq.

- Sarebbe pronto a tornare in Iraq?

Fuor di dubbio. Vi sono già stato per quattro mesi con la Garibaldi. Mi manca solo Afghanistan.

- Qual è il momento più difficile per una missione all’estero?

L’inizio. I primi giorni per ambientarsi, per capire dove sei, che cosa puoi fare, come devi comportarti.


- Si dice che italiani siano tra i più capaci nello stabilire relazioni civili con la gente del posto. Grande verità o pietosa bugia?

E’ un fatto tante volte sperimentato. Con diplomazia noi riusciamo a ottenere determinati risultati. Questo è fondamentale. E poi noi ci mettiamo grande umanità e un po’ più di passione nell’affrontare certe situazioni. Il che non significa non essere pronti a saperci difendere, quand’è purtroppo necessario ricorrere alle armi.

- A proposito: "Operazione militare di pace". Tutti ormai lo ripetono (con molta ipocrisia). Ma se è militare, ossia e appunto con le armi, può essere "di pace"?

A volte è l’unico modo per cercare di mantenere la pace. Se si potesse farlo semplicemente sventolando la bandiera della pace… Ma non per niente non lo fa nessuno.

- Che cos’è per lei la pace?

Il reciproco rispetto. Le guerre scoppiano, quando si comincia a contestare l’identità delle persone, calpestandone i diritti.

- E la patria che cos’è?

Un valore da difendere a tutti i costi.


- Perché volle fare il parà?

In realtà io desideravo fare l’ufficiale pilota. Purtroppo sbagliai un esame in volo, e mi fu data l’opportunità di scegliere. Scelsi, così, il paracadutismo proprio a causa dell’iniziale passione per il volo; anche se in questo ambito il volo è forse la parte secondaria. Contano, piuttosto, lo spirito, la compattezza, l’unione fra di noi. Cose non facili da trovare.

- Ma a un figlio consiglierebbe di continuare l’avventura?

No. E sa perché? Perché mi creerebbe delle forti preoccupazioni. Se indossi la divisa, lo puoi fare in un modo solo, con lealtà e con onore. E ciò comporta dei sacrifici. E dei rischi.

- Da soldati sentite più sostegno, indifferenza oppure ostilità da parte dei cittadini?

Oggi non ho dubbi: grande sostegno. Ma anni fa forse non avrei dato la stessa risposta. Francamente, non saprei dire se il cambiamento che c’è stato, sia dovuto soprattutto all’opera di Carlo Azeglio Ciampi, che ha dato una spinta straordinaria all’amor di Patria. Un amore che era sempre presente nell’animo degli italiani, ma che non si esprimeva, non riusciva a manifestarsi. Perché l’amor di Patria non lo s’inventa: o ce l’hai e non ce l’hai. Al di là di quel che può dire qualche politico, io il Paese lo sento vicino. Per certe cose è normale che la classe politica si divida. Ma anche lì c’è una compattezza di fondo e non solo in occasione di eventi tragici.

- "I militari vanno all’estero per soldi". Che cosa risponde a chi considera che sia questa la ragione principale della vostra scelta?

ci sono tanti lavori dove rischi di meno e guadagni di più. E senza neppure bisogno di andare all’estero per lunghi periodi. Per carità non sono i mille o duemila euro in più che ti danno al mese a cambiarti l’esistenza. Dall’estero si torna ricchi, questo è sicuro. Ma ricchi di un’ esperienza unica: l’essere riuscito a far qualcosa di importante per gli altri. Oggi non si sceglie questo genere di vita militare né per ripiego né per avere una paga sicura.

- E lei perché l'ha scelta?

Per passione. Mio nonno era maresciallo, probabilmente ho percepito un’aria di famiglia, anche se i miei genitori non hanno mai spinto in questo senso. Forse i valori che ho respirato in casa mi hanno inevitabilmente portato dove sono arrivato.

- Qual è la virtù del soldato italiano?

La capacità d’unire, al coraggio, l’umiltà. E dunque la sua straordinaria umiltà.

- E il difetto?

Finché continueremo a saper coltivare coraggio e umiltà, il soldato italiano resterà il migliore al mondo. E il mondo continuerà ad aver bisogno di lui.

Federico Guiglia Gazzetta di Parma, Domenica 18 Giugno


Paglia ferito in Somalia: l’Onu ha imparato dal passato, per le regole niente ambiguità

"IL RISCHIO C’E’, SERVE CHIAREZZA"

NAPOLI. E se finisse come in Somalia? "Mi auguro davvero che l’Onu abbia fatto tesoro di quanto è accaduto in passato". Nonostante tutto il capitano Gianfranco Paglia è ottimista. Franco Angioni, il generale che comandò la spedizione italiana in Libano nel 1982, teme che ora si ripeta una situazione analoga alla Somalia, dove fu un vero disastro. Tutta colpa delle regole d’ingaggio, che il generale è sicuro che saranno, poco sopra il livello minimo. Troppo poco per assicurare la sicurezza dei nostri soldati. "Certo, le regole d’ingaggio sono fondamentali", conferma dalla sua abitazione di Caserta il capitano Paglia, uno che la Somalia se la porta addosso. Lui, Medaglia d’Oro al Valor Militare, quel maledetto 2 Luglio 1993 al check point “Pasta” a Mogadiscio c’era. C’era durante l’attacco che costò la vita a 3 soldati italiani che partecipavano alla missione Onu e il ferimento di altri 23. Tra questi lui stesso, da allora costretto da una sedia a rotelle.


Proprio sulle regole d’ingaggio non sembra esserci la dovuto chiarezza. Come dovrebbe essere? Il generale Angioni accusa l’ambiguità della risoluzione.

"Sicuramente il generale Angioni parla a ragion veduta. Una cosa è certa: la contrapposizione tra israeliani e libanesi non la si potrà fare andando lì con i fiori o sventolando fazzoletti al vento. Ecco perché sarà di fondamentale importanza conoscere bene le regole d’ingaggio dei nostri militari".

Alla fine questa chiarezza ci sarà?

"Ho fiducia nell’Onu".

Davvero ha fiducia nell’Onu?

"Certo, non credo che siano così stupidi".

Al di là degli auspici, sono stati fatti passi in avanti da parte delle Nazioni Unite rispetto ai tempi della missione “Restore Hope-Ibis”?

"Sicuramente, per convincersene basta guardare alcune delle missioni militari successive. Insomma, la Somalia insegna. E poi c’è anche un altro aspetto che mi induce a sperare che alla fine ci sarà la chiarezza necessaria".


Quale?

"Qui non si tratta solo delle Nazioni Unite; non è pensabile che non ci sia la chiarezza necessaria anche da parte del Governo italiano".

E da questo punto di vista la posizione tenuta fin qui dall’Esecutivo le sembra appropriata?

"Mi pare che questa richiesta di chiarezza ci sia, e anche le dichiarazioni dell’opposizione vanno in questa direzione".

Che tasso di rischio presenta la missione in Libano?

"Chiariamo subito una cosa: non esistono missioni facili, questa mi pare che presenti un rischio medio – alto. E’ inutile girarci intorno: più che chiamarla missione di pace dovremmo chiamarle missioni per portare la pace".

Va bene, ma stavolta si tratterà di mettersi tra due fuochi: da un lato l’esercito israeliano, dall’altro gli Hezbollah e l’esercito libanese. Non crede che ci sia una percentuale di rischio supplementare?

"In realtà è sempre stato così, dove abbiamo operato siamo sempre stati tra i classici due fuochi. Pensi alle missioni militari in Kosovo o in Bosnia, ci sono sempre state due fazioni in lotta. Anzi, sa cosa le dico?".

Cosa?

"Che probabilmente stavolta ci sarà una maggiore chiarezza".

Maggiore chiarezza in che senso?

"Nel senso che stavolta saremo chiamati a mediare non tra due fazioni, ma tra due Stati".

Scusi il vantaggio quale sarebbe?

"Quello di conoscere chi abbiamo di fronte. Non è cosa da poco: un conto è avere a che fare con dei guerriglieri, un altro con soldati in divisa. Né i soldati israeliani né quelli libanesi ci spareranno addosso. Sarebbe una follia".

Si, ma di mezzo ci sono i guerriglieri Hezbollah. Le chiedo: quanto è credibile che l’esercito di Beirut disarmi il “partiti di Dio” se, come ha dichiarato qualche giorno fa il presidente libanese, "l’Hezbollah è parte integrante del nostro esercito"?

"Sembra che anche gli Hezbollah abbia accettato la risoluzione. Speriamo che lo faccia fino in fondo".

Sta di fatto che basterà un razzo sparato da dietro un cespuglio per riaccendere la guerra. E noi a quel punto ci troveremo in mezzo.

"Bisognerà essere bravi. Bravi e diplomatici. E in questo noi italiani sappiamo essere molto efficaci".

Vincenzo Nardiello per il "ROMA", martedì 15 Agosto


RIFLESSIONI DEL CAPITANO GIANFRANCO PAGLIA, FERITO NEL ’93 IN UNA MISSIONE IN SOMALIA

Era giovane sottotenente della Folgore, in Somalia nel 1993, oggi Capitano e Medaglia d’Oro al Valor Militare. Lui, Gianfranco Paglia, casertano, ma soprattutto un grande uomo che ha sempre tenuto alto il significato più profondo della Patria e del senso più vero di “missione”, ha vissuto il momento del ferimento prima, e della morte dopo, del suo conterraneo il giovane Caporal Maggiore Vincenzo Cardella, in prima persona. Il Capitano Paglia, infatti, nel 1993 era ufficiale paracadutista e partì in una missione per la Somalia, proprio come Vincenzo ha fatto lo scorso maggio per Kabul. Due missioni, due storie forti che hanno in comune il grande senso del dovere, con un destino diverso… Paglia il 2 luglio del 1993, durante un conflitto a fuoco, in terra somala, fu colpito da tre proiettili, uno dei quali gli ha leso in modo permanente la colonna vertebrale costringendolo a vivere su una sedia a rotelle. Lui che ha sempre amato la vita ha così ricordato: “ quel giorno ci furono tre morti e ventidue feriti; tra questi ultimi ci sono io, sicuramente più fortunato di chi non è rientrato vivo in Patria”. E a distanza di anni il destino dei compagni di Paglia che erano in missione con lui è lo stesso destino di Vincenzo Cardella. Raggiunto telefonicamente il capitano Paglia ha così commentato la notizia della morte del Cardella: “Una notizia che dal mio punto di vista e dopo quanto avvenuto fa ancora più male, ho seguito la vicenda attimo dopo attimo e c’era davvero la speranza che Vincenzo si potesse riprendere. Un dolore forte ancor di più per i familiari che avevano la speranza di poter tornare a casa con lui”.

Capitano come ha vissuto quei momenti in cui tutte le televisioni proiettavano le immagini dell’attentato a Kabul?

Non dico che ci stavo facendo l’abitudine… ma quando si va all’estero e si indossa la divisa si sanno i rischi che si possono correre.


Ha vissuto altre e simili esperienze?

Non ho riscontrato altri problemi grossi, sono stati missioni ed esperienze importanti, anche quelle portate avanti dopo l’incidente. Questa è la nostra professione, è una scelta di vita!

Oggi c’è in corso una grande polemica: Missioni di pace o di guerra?...

Non esistono missioni di pace ma per portare la pace. Non c’è differenza se si indossa il basco azzurro o quello nero, l’importante è portare un aiuto, non è il governo che fa la differenza. Noi militari siamo superiori a queste cose. Crediamo nel nostro lavoro e in tutto quello che facciamo soprattutto quando andiamo fuori, all’estero.


Capitano, anche dopo l’incidente lei ha fatto altre missioni…

Si sono stato fuori proprio lo scorso anno e probabilmente prossimamente in programma ci potrebbe essere il Libano.

Un messaggio ai militari italiani che ora sono a Kabul…

Di continuare a fare il proprio dovere e se è possibile ancora di più; non si può abbandonare il campo nonostante queste tragedie ci colpiscono e ci fanno del male, bisogna andare avanti per portare a termine questa missione.

Emma De Pascale per "Il Giornale di Caserta", 1 Ottobre


PATRIA E SACRIFICIO

Una vita al servizio della Patria. Com’è nata in lei la vocazione a questa missione? E quali valori riconosce nella divisa?

“La divisa incarna i valori di lealtà, onore e Patria e io sono cresciuto con questi principi. Mio nonno ha vestito la divisa per tutta la vita e i valori che questa rappresenta sono qualcosa che mi appartiene da sempre, qualcosa verso cui mi sono sempre sentito pronto a sacrificarmi”.

Dove finisce il coraggio e dove inizia l’eroismo? Chi sono gli eroi di oggi?

“Penso che gli eroi di oggi e di sempre siano coloro che mettono a repentaglio la propria vita per gli altri, per un ideale, per dei valori. Eroi sono quei nostri ragazzi che fanno ritorno in Italia dalle missioni straniere avvolti nel tricolore.”.

Che cosa vuol dire partecipare ad una missione militare in zona a rischio? E qual è stato il momento più emozionante della sua vita a servizio della Patria?

“Partecipare a una missione militare in zona a rischio implica la messa in pratica di mesi e mesi di insegnamenti e di esercitazioni ed è il nostro modo di rendere servizio agli altri. Il nostro è un lavoro dalle emozioni forti; è sempre un’emozione la partenza per una missione all’estero e il ritorno in Italia è di regola accompagnato da un grande arricchimento personale. Una missione all’estero è anche un ottimo modo per riprendere coscienza dei veri valori e le cose realmente importanti; indubbiamente si apprezza molto di più la rassicurante routine quotidiana: non appare più così scontata una tranquilla serata davanti alla Tv”.


Come sono cambiate le missioni militari dall’inizio della sua carriera ad oggi?

“Sicuramente mettendo a confronto le missioni dell’inizio della mia carriera con quelle di oggi si può scorgere un progresso. L’esperienza consente la crescita e oggi ci sono maggiori conoscenza e professionalità”.

Quanto ritiene essere importante il contributo militare per il mantenimento della pace?

“Spesso il contributo militare è fondamentale per il mantenimento della pace, indispensabile. Parlo guardando ai fatti; si pensi al caso dei Balcani, a quello dell’Iraq o a quello dell’Afghanistan, fino ad arrivare a quello di queste ultime ore: il Libano, dove la situazione è più rischiosa di quanto attualmente possa sembrare”.

Una missione militare è sempre corredata dall’utilizzo di armi. Ma esistono davvero le armi intelligenti?

“La premessa indispensabile è che l’arma è uno strumento nelle mani dell’uomo e dietro di essa c’è dunque sempre e comunque l’intelligenza della persona che è costretta a servirsene. Certo nel campo della tecnologia bellica sono indubbiamente stati fatti passi da gigante. Quando purtroppo è inevitabile l’uso delle armi l’affinamento della tecnica consente ad esempio di essere il più preciso possibile nel colpire solo l’obbiettivo mirato, ancora però si è molto lontani dalla perfezione. In particolare poi noi italiani tendiamo ad usare le armi il meno possibile, soprattutto nel caso in cui sia forte il rischio di colpire insieme all’obbiettivo persone che non c’entrano affatto”.

A proposito del pericolo di terrorismo e del rischio attentati nel nostro Paese: che ne pensa delle intercettazioni richieste dal Sismi?

“Credo che le intercettazioni siano un mezzo valido, uno strumento utile, che, come tutti gli strumenti, può essere usato in modo corretto, ma anche in modo sbagliato. Non è corretto ad esempio servirsi delle intercettazioni per pubblicizzare qualcosa o qualcuno, né tanto meno per annientare qualcuno. Ritengo che i servizi dovrebbero avere carta bianca, a patto però che l’obbiettivo sia sempre e solo la salvaguardia della nazione”.


Come è cambiata la sua vita dopo l’incidente? Che consigli si sente di dare a quanti sono stati vittime di incidenti simili al suo, sia in ambito militare che non, lei che così straordinariamente è riuscito a recuperare le redini della sua vita, tanto da poter essere considerato un simbolo?

“La mia vita in parte è cambiata, cerco di fare tutte le cose che facevo prima, me non posso essere più operativo. La mia capacità di reagire, il mio darmi da fare è stato molto aiutato anche dalle Forze Armate, che mi hanno dato la possibilità di continuare a lavorare con loro. Non penso di fare nulla di straordinario, io mi diverto a fare le cose che faccio e non mi sento di dare consigli, né tanto meno credo di essere un simbolo: di persone con handicap che fanno una vita normale e che fanno cose straordinarie ce ne sono davvero tante”.

Qual è il rapporto che durante una missione si crea con i colleghi e quale quello che si istaura con le popolazioni dei Paesi presso cui si esercita il servizio?

“La caserma diventa come una grande famiglia; si è lontani da casa, dalla famiglia vera e si sente forte il bisogno di ricreare con i colleghi un clima simile, di stringersi l’uno all’altro. Inoltre le problematiche e le difficoltà della vita in missione contribuiscono a cementare l’unione ancora di più. Con le popolazioni straniere diciamo che noi italiani riusciamo sempre a porci in maniera particolarmente benevole, a suscitare simpatia, siamo un popolo molto amato”.

Sente verso il suo servizio una riconoscenza adeguata da parte di tutto il Paese?

“Non si lavora per consenso, certo il consenso fa piacere, ma non è l’obbiettivo del nostro servizio. Magari non piacciamo a tutti, ma anche in questo caso deve vincere la democrazia. Però l’amor di Patria tra gli italiani si sente. In questo senso penso che un contributo importante sia stato dato dal Presidente Ciampi, che ha saputo risvegliare negli italiani valori presenti, ma forse un po’ dimenticati”.

Cecilia Moretti per "Charta minuta", Ottobre


“PER NASSIRIYA, GRAZIE PRESIDENTE”

A distanza di tre anni dalla strage di Nassiriya in cui rimasero uccisi dodici carabinieri, quattro soldati dell’esercito, due civili e nove iracheni in 12 novembre non c’è stata una commemorazione ufficiale. Sostituita, invece, da una serie di iniziative ed accompagnata da mille polemiche. Il Governo è stato accusato di aver rinunciato ad una commemorazione ufficiale per non indisporre le forze di estrema sinistra che lo sostengono. A polemiche ormai sedate abbiamo chiesto ad una personalità di spicco, il capitano Gianfranco Paglia, una sua opinione su questa vicenda. Gianfranco Paglia è un ufficiale del nostro esercito che, per il suo eroismo, è stato insignito di medaglia d’oro al Valor Militare. Rimase vittima di un agguato, mentre portava in salvo alcuni soldati feriti in un’imboscata in Somalia dove il contingente italiano era andato – siamo nel 1993 – in missione di pace. Da quel luglio di tredici anni fa è costretto su una sedia a rotelle: ha perso l’uso delle gambe e solo per un caso del destino la sua vita s’è salvata dopo aver combattuto con la morte in un ospedale di campo americano a Mogadiscio. Dopo quella vicenda Gianfranco Paglia è rimasto nell’Esercito ed ha partecipato anche a numerose altre missioni. E’ stato in Bosnia, in Kosovo e anche a Nassiriya recentemente.

Cosa pensa delle polemiche recenti sulla rinuncia a ricordare i caduti di Nassiriya?

“Credo che ogni polemica debba essere accantonata dopo l’intervento del Presidente della Repubblica. Il suo messaggio al Ministro della Difesa è significativo. Napoletano ha detto "Desidero ricordare quei caduti, esempio di mirabile dedizione al senso del dovere e all’amor patria". E, ricordando il coinvolgimento emotivo vissuto tre anni fa da tutta la nazione ha affermato che gli italiani morti a Nassiriya, donarono il bene supremo della vita ispirandosi a un nobile intento di pace e mirando a sostenere la rinascita e il progresso civile dello Stato iracheno. Inoltre, per il Presidente, i soldati inviati in missione sono chiamati a garantire i valori fondamentali sanciti dalla Costituzione”.

Ma queste parole sono sufficienti per rendere giustizia ai familiari dei caduti di Nassiriya?

“Il Presidente della Repubblica rappresenta tutta la Nazione, al di sopra delle parti. E la Costituzione gli affida anche il compito di essere il capo supremo delle forze armate. Il Paese, che si riconosce nella Costituzione, guarda a lui e non può certo soffermarsi sui singoli aspetti di una polemica francamente molto amara”.



Il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio ha affermato: se noi fossimo stati al governo quei morti non ci sarebbero stati, perché non avremmo partecipato alla guerra in Iraq. Cosa pensa al riguardo?

“Rispetto la sua opinione e non entro nel merito. Dico soltanto che la decisione di partecipare alla missione in Iraq derivò da una richiesta dell’Onu cui aderirono trenta Paesi tra i quali l’Italia. Quella decisione fu adottata dal Parlamento italiano ed avallata dal Capo dello Stato. In un Paese democratico com’è l’Italia le forze armate mettono in pratica, perché questo è il loro dovere, le scelte del Parlamento. Ci mancherebbe altro”…

Il presidente della Camera ha definito quella strage una "tragedia umana e nazionale" ma ha aggiunto che egli considera la nostra operazione in Iraq un’operazione sbagliata di guerra. E’ stata così? Un’operazione di guerra?

“Legittimamente il presidente della Camera o chiunque altro esprime la propria opinione sulla quale un soldato non ha commenti e valutazioni da fare. La mia esperienza a Nassiriya mi induce soltanto a ricordare alcuni interventi per salvare dei bambini che avevano bisogno di cure urgenti o di interventi chirurgici. E noi li abbiamo fatti venire qui in Italia per ridare loro una speranza di vita. Se la decisione di andare in Iraq è stata una decisione sbagliata questo attiene alla politica ed alle scelte che un Parlamento, democratico eletto, opera”.

Ma se la missione in Iraq fosse stata una missione di guerra ciò spiegherebbe il motivo per cui la strage di Nassiriya non è stata ufficialmente ricordata…

“Vorrei rifarmi per un attimo alla storia. La partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale è stata una tragedia per tutto il Paese. Ma alla guerra sono andati i soldati che certamente credevano nel fascismo e nella dittatura. Noi oggi ricordiamo i caduti di El Alamein per il loro eroismo, non certo per la loro partecipazione alla guerra voluta dal fascismo… E se li ricordiamo per il loro eroismo ci sentiamo comunque agli antipodi rispetto alla dittatura. Senza equivoci o zone di ambiguità”.

Margareth Porpiglia per "La Gente d’Italia", Venerdì 17 novembre