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2004

L’INTERVISTA Il capitano Paglia, medaglia d’oro al valor militare: donne e bimbi usati come scudi

Paglia: è stato come in Somalia!

ROMA. In Iraq come in Somalia? Ne parliamo con il capitano Gianfranco Paglia (nella foto), casertano, medaglia d’oro al valor militare, che in Somalia, partecipando ad una missione per tanti versi simile a quella irachena, il 2 luglio 1993 rimase vittima di uno scontro a fuoco nei pressi del pastificio di Mogadiscio e perse l’uso delle gambe.

Qualcuno, a proposito dell’assedio dei giorni scorsi, ha paragonato la situazione in Iraq a quella in Somalia...

«Per grandi linee è vero. Anche in Iraq si è verificato come in Somalia una sorta di imboscata ben architettata. Adesso come allora quello che fa maggiormente impressione è che i guerriglieri fecero venire avanti donne e bambini per farsi scudo e dopo fecero fuoco. Allora evitammo di reagire subito per non sparare sui civili. Ed è quello che è accaduto anche a Nassirya. »

In verità c’è chi ha polemizzato sulle 15 vittime irachene...

«Giudicare seduti dietro una scrivania è sempre troppo semplice. Da tecnico le dico che se i nostri avessero aperto il fuoco in maniera indiscriminata ci sarebbero stati molti più morti. Se i bersaglieri avessero fatto fuoco con tutto l’equipaggiamento a loro disposizione ci sarebbe stata una vera e propria carneficina. Al contrario, il numero limitato di morti dimostra quanto l’azione sia stata mirata...».

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Due civili, una donne e un bambino sono morti...

«È ancora da verificare se ad ucciderli sia stata una pallottola sparata dai soldati italiani o se siano rimaste vittime del cosiddetto “fuoco amico”. Un ipotesi che non escludere! a priori, visto che i guerriglieri non hanno avuto esitazioni a farsi scudo di donne e bambini...».

Da quarantotto ore la tregua tiene...

«A mio avviso questo è il frutto di un azione combinata tra la parte operativa e la diplomazia che si è avuta in queste ore. Infatti, non è solo con le armi che si risolve il problema. Per noi soldati italiani, il ricorso alle armi è l’extrema ratio, e questa è la norma, applicata sempre, anche a discapito degli stessi militari. A Nassirya sarebbe stato molto più semplice aprire il fuoco senza crearsi troppi scrupoli, ma noi non abbiamo questa mentalità».


Dopo una dittatura, la regola è la guerra civile...

« Sicuramente. È accaduto in Somalia, nella ex-Jugoslavia: la lotta tra le fazioni rende difficile il controllo del territorio. Ed era in parte prevedibile che 11 lavoro umanitario che l’alleanza dei volenterosi sta facendo desse fastidio a qualcuno. Pochi in Italia lo dicono, ma a Nassirya, grazie agli italiani, sono stati risistemati acquedotti, scuole, ospedali. La gente, a mano a mano, stava tornando ad avere una vita molto migliore di quella che aveva con Saddam.

Che effetto le fanno le critiche aspre da parte dell’estrema sinistra?

«Ci siamo per così dire, abituati. Noi rispondiamo sul terreno, cercando di fare il nostro dovere. E se ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni, noi abbiamo diritto a continuare a lavorare con onore per il nostro Paese...».


Andarsene?

«Sarebbe un grosso errore. Significherebbe abbandonare l’Iraq al dominio dei signori della guerra. E poi i nostri caduti sarebbero stati del tutto inutili? Non mi sembra giusto nei loro confronti. Essi a questa missione ci credevano. . . ».

Secondo lei la gente che ne pensa?

«Io non credo che l’italiano medio pensi che sia giusto andar via. Non lo ha pensato dopo i 19 caduti e non lo pensa adesso. Solo alcuni politici, che sono sempre stati contrari, ritengono che bisogna ritirarsi. Bisogna però dar loro atto, in particolare alla sinistra estrema, della propria coerenza.. È una coerenza “ideologica” tutta da apprezzare. Quello che dispiace è, al contrario, il comportamento degli ambigui, che prima analizzano dove tira il vento e poi si mettono a favore o contro».

Quali sono le prospettive?

«Mi auguro che gli scontri di qualche giorno fa siamo l’ultimo atto. I presupposti non sono eccezionali, ma a questo punto è doveroso fare il massimo perché la pace possa regnare in Iraq...».

Armando De Simone
9 aprile "Il Roma"


Gianfranco Paglia, oggi capitano della Brigata Bersaglieri “Garibaldi”, racconta cosa vuol dire servire la Patria in armi all’estero

E’ l’umiltà lo “stile” dei soldati italiani

Sono più o meno dodicimila i soldati italiani impegnati in missioni nel mondo, missioni per assicurare la pace a rischio della vita. Lo sa bene Gianfranco Paglia, oggi capitano della Brigata Bersaglieri “Garibaldi’, ma ieri ferito quasi a morte in Somalia. Altra operazione drammatica, quella di undici anni fa a Mogadiscio, altra operazione come questa così maledettamente difficile in Iraq. Forse il testimone, quel testimone rimasto sulla sedia a rotelle e ancora con la divisa indosso, può aiutarci a capire che cosa succede quando l’inferno piomba sulla Terra. E spiegarci come sono cambiate le Forze Armate dal Libano (1982) in poi. E raccontarci se c’è un modo o addirittura un modello italiano nel servire la Patria in armi all’estero. C’è di sicuro un riconoscimento per suggellarlo: ripristinare la festa nazionale del 4 novembre: “Si. sarebbe proprio una bella cosa” sottolinea Paglia, il quale all’epoca dello scontro a cui sopravvisse era sottotenente della Folgore. Ora medaglia d’oro al valor militare. Di famiglia napoletana, l’ufficiale è nato a Sesto San Giovanni (Milano) e ha quasi trentaquattro anni.

L’Iraq come il Libano o la Somalia?

I paragoni sono sempre azzardati. ma fin dall’inizio io ho sempre detto che la situazione irachena per molti versi mi faceva venire in mente quella somala, un po’ per le condizioni am­bientali, un po’ per queste fazioni che creano guerriglia nei centri abitati e un po’ per la mancanza ancora di una figura istituzionale da tutti riconosciuta. Certo, l’attualità è molto più drammatica rispetto alla nostra esperienza a Mogadiscio, basti vedere il numero di soldati americani che muoiono ogni giorno. Però io mi auguro sinceramente che, nonostante tutto, le cose possano migliorare da qui al 30 giugno.

Da più parti e ben prima del “tutti a casa” degli spagnoli, s’invoca l’intervento dell’Onu come soluzione miracolistica. Oppure si può credervi davvero?

La questione è molto complicata. Magari bastasse una missione delle Nazioni Unite per non farsi sparare addosso. Purtroppo l’esperienza dimostra che finché non si consolida un patto di stabilità nel Paese da aiutare, l’Onu può fare ben poco. Le Nazioni Unite hanno ben operato in Mozambico, ad esempio, o in Eritrea ossia in luoghi dove reggeva la stabilità. Ma in altre zone dove questo elemento è mancato — penso proprio alla Somalia o ai Balcani — la cosa non ha funzionato.

Come si fa a difendere la pace dove regna la guerriglia?

Purtroppo di fronte non c’è un esercito con una divisa. Gli stessi americani che sono i più abituati alle guerre, incontrano notevoli difficoltà con le guerriglie, perché non esiste un vero e proprio modo per combatterle. E’ una situazione di grande incertezza quotidiana nella quale il militare può fare soltanto una cosa: prestare una grandissima attenzione a 360 gradi. Cercando sempre di distinguere, di differenziare l’azione dell’eventuale nemico ‘invisibile” da quella del popolo che si deve tutelare.

Ecco, spesso si elogia il rapporto che i soldati italiani sanno instaurare con le popolazioni: retorica o realtà?

E’ pura realtà, realtà di tanti anni ormai. Rispetto ad altri eserciti, noi riusciamo ad essere allo stesso tempo più umani e razionali persino quando si è costretti ad aprire il fuoco. Potrei ricordare la nostra vicenda in Somalia, ma restiamo pure all’attualità, a quanto è successo pochi giorni fa nello scontro a Nassirya. Se avessero agito in un certo modo, se avessero dato la possibilità ai mezzi pesanti di aprire il fuoco, i nostri soldati avrebbero avuto meno feriti e quel famoso ponte l’avrebbero sgombrato e riconquistato in cinque minuti. Però non l’hanno fatto proprio per evitare di colpire una moltitudine di persone. Hanno agito diversamente, dimostrando una grande professionalità. Come accaduto altre volte anche in passato.

Lei ne è stato drammaticamente testimone…

Pure in Somalia si creò l’imboscata contro di noi, mandando avanti donne e bambini. Fin da subito noi rinunciammo ad aprire il fuoco per non uccidere chi era stato proditoriamente utilizzato dai signori della GUERRA. Anche allora, e accadde undici anni fa, noi evitammo il rischio di provocare una strage. Ovviamente ne abbiamo pagato le conseguenze, perché tutto ciò determina un maggior numero di feriti e di morti. Tre morti e ventidue feriti, per la precisione. Nel recente scontro a Nassiriya per fortuna non abbiamo avuto vittime. Ma i feriti sono stati dodici. Comunque, noi militari italiani preferiamo agire in questo modo. Direi che è una delle caratteristiche delle nostre Forze Armate.



Ma è un atteggiamento — come dire? — istintivo del nostro essere italiani? Oppure è un Inse­gnamento operativo quello dl ri­schiare la vita piuttosto che ri­schiare dl toglierla a innocenti buttati nella mischia dai “signori della guerra”?

Fa parte del nostro essere italiani Dal punto di vista tattico per noi non è dif­ficile metterlo in pratica E’ semplice­mente naturale che così sia.

Perché i militari americani ragionano in altro modo, o alme­no questa è la percezione che spesso si ha di loro?

A dire il vero non so neanche se le cose stiano veramente così. Bisogna intanto ricordare che i due casi sono molto diversi. Loro sono andati in Iraq per fare la guerra, noi per assicurare la pace nel dopoguerra. E' chiaro che gli americani si trovano in una condizione molto particolare anche dal punto di vista emotivo. Nell’arco della giornata ti muoiono tre, quattro, dieci colleghi e tutto diventa più esa­sperato. Per loro è duro andare avan­ti in questo modo cercando d’essere obiettivi e sereni. Non mi sento di giu­dicare; non è, tra l’altro, neanche il mio compito. Ma dico a chi giudica: a ragazzi americani è successo di fer­marsi a un semaforo e di vedersi ta­gliata la gola.

I militari americani hanno comunque molta maggiore diffi­coltà a “dialogare” con la popola­zione, o no?

Sicuramente. Forse succede perché lo­ro hanno un mondo loro, e si chiu­dono a riccio. Noi cerchiamo sempre di aprirci agli altri. Però non si di­mentichi che l’impostazione di par­tenza è diversa: i militari americani hanno fatto la guerra e noi no. L’approccio delle rispettive missioni è completamente differente e questo incide sulla realtà che poi si vive ogni giorno.

Qual è li segreto per la buo­na riuscita di un’operazione così complicata, come quella in Iraq?

La professionalità e il rapporto con la popolazione del posto ne costituisco­no gli ingredienti basilari. Ma forse il segreto sta nell’avere le idee ben chia­re fin dall’inizio.

Se il nostro rapporto con la popolazione di Nassiriya era ed è buono, perché abbiamo avuto di­ciannove morti ammazzati a Nas­siriya?

Io resto convinto che quella strage sia stata pilotata da fuori. La gente del luogo ha dimostrato anche con dei piccoli ma significativi gesti di non essere e di non voler essere coinvol­ta nell’eccidio. Poche ore dopo porta­vano fiori sul luogo dell’attentato.

Come ci si difende nei caso dei drammatici sequestri?

Esistono dei cosiddetti “corsi di pri­gionia” per imparare. Però questo è uno dei tipici casi in cui tra la teoria e la pratica c’è un abisso. La regola numero uno è la lucidità. E poi l’umiltà­, cioè l’evitare reazioni che non produrrebbero risultato alcuno quan­do si è nelle mani degli esaltati. Facile solo a dirsi, il tutto, quando poi si ha a che fare con gente priva di qualunque regola, come abbiamo purtroppo visto. Gente che non tratta i suoi sequestrati come “prigionieri di guerra”.

Quanto e come sono cambiate le Forze Armate dalla missione in Libano in avanti?

Nel campo l’esperienza è un elemento importantissimo. Ormai le missioni italiane hanno fatto tesoro anche delle situazioni più critiche, co­me quelle vissute, appunto, in Soma­lia. Col tempo le Forze Armate han­no acquisito molta professionalità e sono migliorate anche nell’equipag­giamento. Hanno un indubbio pre­stigio in campo internazionale e una nuova percezione presso gli italiani, Oggi sentiamo l’affetto dei connazio­nali per chi indossa la divisa La rea­zione popolare che c’è stata dopo la strage di Nassiriya lo conferma Sa­pere che il proprio lavoro, un lavoro in cui si mette a rischio anche la vita, viene apprezzato dai cittadini, è mo­tivo di conforto.

Ma lei perché continua a fa­re il militare anche sulla sedia a rotelle?

Perché ci credo, Credo nell’onore, nel­la lealtà, nella Patria, Credo che a tutt’oggi ci si possa sacrificare per questi valori. La mia condizione non può e non deve fermarmi. Al contra­rio, sa che le dico? Che il 28 parto per il Kosovo. Ci starò un paio di me­si e rivedrò i paracadutisti, il mio vecchio Reggimento. Il fatto di lavorare stando seduto, non mi scoraggia. La mia vita è normale, è come la vita di tutti gli altri E poi sono abbastanza autonomo. Con gli esercizi negli an­ni sono riuscito a ottenere una certa libertà di movimento. Questo è fon­damentale.

Proviamo a immaginare un simbolico riconoscimento al “nuo­vo ruolo” dei militari in Italia o in missione: il 4 novembre di nuovo festa nazionale delle Forze Arma­te?

Sì, ripristinare la festa del 4 novem­bre sarebbe un bel riconoscimento, I simboli sono importanti per l’identità nazionale. E tutto si può dire di chi in­dossa la divisa, fuorché che lo faccia per soldi: ci sono lavori e professioni molto meno pericolose e molto più remunerative. Contano le cose “mo­rali” e il 4 novembre lo sarebbe per tutto il Paese.

Con o senza ONU prevede che si resterà a Baghdad oppure no dopo il 30 giugno?

Lo sforzo che si sta facendo per l'Iraq è quello di aiutarlo a diventare un Paese normale, dove presto si potrà andare anche e normalmente in va­canza Come a Sarajevo o in Bosnia, dove però c’è una presenza costante della Nato, che impedisce qualsiasi tipo di conflitto. E’ importante poter andare a vedere liberamente delle zone, perché infonde fiducia nella popolazione del luogo: ci si sente meno soli. Pure nel Kosovo si sta lavorando per raggiungere lo stesso traguardo. Difficile fare previsioni, ma credo che nessuno voglia lasciare l’Iraq allo sbando.

La pace ha tempi lunghi?

E purtroppo anche prezzi alti, molto alti da pagare.

Secolo d’Italia 21 Aprile


Il parà «monzese» Gianfranco Paglia è in partenza per il Kosovo

Tempo di nuove missioni

(abr) Dopo la Somalia e la Bosnia è ora la volta del Kosovo. Gianfranco Paglia, 34 anni, medaglia d’oro al valor militare e membro della sezione monzese dell’Associazione nazionale paracadutisti d’Italia», è in partenza per una nuova missione di pace. Giovedì partirà per il Kosovo dove sarà impegnato per alcuni mesi nella distribuzione di viveri e di generi di prima necessità agli orfani e ai profughi vittime della tremenda guerra nei Balcani. Un evento importante per il capitano Gianfranco Paglia salito alla ribalta delle cronache il 2 luglio 1993 quando, impegnato con il contingente italiano nella missione di pace in Somalia, è stato tra le vittime dei cecchini africani nell’attentato del «check point» Pasta.


Il militare, all’epoca 23enne, sottotenente, per salvare quattro commilitoni feriti si è esposto alle raffiche di mitra dei cecchini che lo hanno colpito in pieno torace. Ferite così gravi che lo hanno costretto per sempre sulla sedia a rotelle. Quel gesto gli valse l’assegnazione del più prestigioso riconoscimento militare, la medaglia d’oro, che gli fu consegnata dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Una vita spezzata quella del capitano Paglia che ha avuto l’onore di indossare le divise della Marina, dell’Aeronautica e dell’Esercito, oltre che quella di portiere del Capua dove era una giovane promessa. Ma l’entusiasmo, la voglia di vivere, di aiutare il prossimo e di tenere alti i colori della bandiera italiana non lo hanno mai abbandonato. E oggi attende con trepidazione e gioia di partire per questa importante missione.

«Sono molto felice di questo nuovo incarico - ha commentato il militare - Prima di tutto perché sarò con i miei vecchi amici e commilitoni. Certo, mi mancheranno gli affetti, soprattutto quello della mia bambina Vittoria, ma per fortuna c’è il telefono e il Kosovo non è poi così lontano». Ma c’è forse anche un piccolo rammarico: quello di non essere potuto partire per l’Iraq come aveva richiesto. «Certo, mi dispiace - ha continuato il capitano Gianfranco Paglia - ma mi rendo anche conto che sarei stato d’impiccio. In Kosovo la situazione è più tranquilla e anche lì c’è molto da fare a livello umanitario». E naturalmente un commento sulla situazione sul campo di guerra. «Spero che migliori - ha commentato - Potrà risolversi solo con la presenza costante di tutti i contingenti militari».

Giornale di Monza MARTEDI 27 APRILE


Io e Gianfranco l’amore ha cancellato quella raffica di kalashnikov

QUANDO Si incontrarono, nel 1984, erano poco più che bambini, avevano solo 14 an­ni, ma da allora Gianfranco Paglia, medaglia d’oro al valor militare, e Giovanna Petrillo, non si sono più lasciati. «Venne ad abitare nel mio palazzo. Era un ragazzino ma­gro e con i capelli rossi e ricci, portati in stile Maradona, e mi colpì per la sua simpatia», rac­conta Giovanna. «Praticamen­te siamo cresciuti insieme, con i sogni, le speranze, le aspirazioni di tutti i ragazzi. Poi, però, la vita decide diver­samente: quello che hai imma­ginato svanisce e tutto cam­bia, come è successo a noi, per un colpo di mortaio». Era il 2 luglio 1993, quando Gianfranco fu ferito durante un’imboscata mentre era in missione in Somalia. Aveva scelto lui, con grande traspor­to, quella vita. «Ha sempre amato la carrie­ra militare. E’ stato in Marina, poi in Aeronautica fino a realiz­zare la sua aspirazione quella, cioè, di entrare fra i paracadu­tisti della Folgore».

Come avete superato quel drammatico momento?

«Non è stato facile. Anche perché all’inizio i medici ci avevano detto che, con le lesio­ni alla spina dorsale subite, la sua aspirazione massima sa­rebbe stata quella di rimanere immobilizzato a letto per tutta la vita. Una prospettiva ango­sciante cui Gianfranco non si è mai piegato. Ricordo che, quando si svegliò dal coma, la prima cosa che disse fu: “Non ti preoccupare, ci sposere­mo” E io non ho mai smesso di crederci».

Avete aspettato molto, pri­ma di sposarvi?

«Avevamo previsto di farlo nel ‘93, ci siamo riusciti nel ‘98, dopo la convalescenza di Gianfranco, i lunghissimi peri­odi di riabilitazione in Svizze­ra, a Mosca, a Firenze e i suoi miracolosi progressi. Ha stupi­to tutti, anche i medici, riu­scendo a conquistare la carroz­zina e poi, anche se con l’aiuto di tutori, stampelle e tantissi­mo esercizio fisico (fa oltre quattro ore di ginnastica riabi­litativa ogni giorno), la posizio­ne eretta, che, però, mantiene non troppo a lungo».


Come è cambiata la vostra vita con il matrimonio?

«Completamente. Io lasciai il lavoro che amavo: ma era l’unica cosa da fare. Gianfranco era a casa mentre io rientra­vo in serata. Una situazione che lo stava prostrando psico­logicamente. Fu una scelta giu­sta. Da allora mio marito ha trovato forza e volontà e ha anche ripreso il suo lavoro. Poi è nata nostra figlia, Vit­toria Pia. E questo evento è stato un’altra iniezione di fiducia. Tanto che è rientrato in servi­zio nel ruolo d’onore, alla Bri­gata Garibaldi. Inizialmente, come medaglia d’oro al valor militare, girava l’Italia invitato in manifestazioni pubbliche e militari. Quindi ha ripreso le sue missioni all’estero. Ora è in Kosovo».

Lei è a casa, lui fuori: non rimpiange il lavoro?

«A volte sì, soprattutto ora che la bambina sta crescendo. Ciò nonostante non ho pensa­to di riprendere né di impedi­re a Gianfranco di svolgere come crede la sua attività: pre­ferisco avere un marito felice e assente, piuttosto che infelice e presente».

Quali sono i pregi di suo marito?

«La tenacia, la forza di vo­lontà, la tolleranza: non si ar­rabbia mai. E tranquillo e cal­mo».

I difetti?

«È testardo, fa sempre quel­lo che dice lui, anche se sa chiedere e ti convince con la dolcezza».


Quali sono le sue passioni?

«Il Napoli: è un inguaribile tifoso e quando può non per­de una partita. E poi le passeg­giate in montagna, soprattut­to al Nord. Nel suo stato deve evitare i luoghi troppo caldi e, poi, in Austria, Trentino o Val­le d’Aosta, ci sono attrezzature e servizi adatti anche ai porta­tori di handicap. Quando an­diamo in vacanza lì, riesce persino a passeggiare da solo con la carrozzina. Qui a Caser­ta, invece, non riesce a spostar­si da solo».

6 Giugno


Comunicato Stampa

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KOSOVO: PAGLIA, RAGAZZI SERBI E ALBANESI VOGLIONO IL DIALOGO MISSIONE UMANITARIA DEL CAPITANO FERITO IN AGGUATO IN SOMALIA

(ANSA) - NAPOLI, 16 GIU - I giovani serbi e albanesi sono stanchi della situazione di conflitto che vivono le due etnie e cercano il dialogo. E’ quanto afferma il capitano Gianfranco Paglia, il militare ferito gravemente undici anni fa in una imboscata in Somalia, che da oltre un mese e’ in missione umanitaria a Pec nel Kosovo con il 186/o Reggimento paracadutisti “Siena”. “Nell’ ultimo mese KFOR - afferma Paglia - ha ricominciato un’ attivita’ nelle scuole sul tema della convivenza, attivita’ che si era purtroppo interrotta dopo gli ultimi eventi di marzo.



In tempi brevissimi i responsabili dell’ attivita’ sono stati in tutte le scuole superiori delle municipalita’ di Pec, Kiina, Decani, Djacovica e nell’ enclave di Gorazdevac. portando il tema della convivenza tra i giovani kosovari albanesi, serbi, bosniaci e rom, si e’ instaurato un dibattito sulle caratteristiche negative dell’ aspetto umano che possono potare alla sofferenza, al conflitto e alla guerra; allo stesso tempo si e’ parlato delle caratteristiche positive del comportamento umano che possono permettere di vivere in liberta’ e in pace”. “Dall’ attivita’ svolta - ha aggiunto - si e’ potuto constatare che sia dalla parte albanese che dalla parte serba sono emerse le stesse risposte e si e’ capito chiaramente che i giovani non hanno voglia di continuare a vivere in questa situazione, ma sono disposti al dialogo dimostrando che hanno voglia di cambiare il futuro del loro paese cercando, insieme le soluzioni per farlo. A conclusione di questa attivita’ domani m. presso Villaggio Italia ci sara’ un incontro interculturale tra i giovani di Pee, Klina, Decani Djacovica e Gorazdevac. AI meeting saranno presenti i rappresentanti della Rete Giovanile del Kosovo, fondata in accordo con l’amministrazione provvisoria della Missione delle Nazioni Unite e coadiuvata del!’ OSCE, con Don Lush, presidente della associazione “Madre Teresa”. “Per la prima volta – ha spiegato Paglia – KFOR ha riunito giovani di diverse etnie: molti di essi, nonostante abbiano avuto delle perdite in famiglia, hanno deciso di partecipare all’incontro dimostrando di essere disposti ai dialogo, facendo cosi’ sentire la loro voce e spiegando a tutto il mondo che l’odio, l’intolleranza e la sete di vendetta non potranno mai portare ad una convivenza pacifica. Saranno i ragazzi stessi a portare avanti il dibattito proponendo i propri pensieri, le proprie idee, le proprie soluzioni. Durante il meeting verranno proiettati alcuni filmati sul tema della convivenza realizzati dalla Rete Giovanile e dall’OSCE. Vi saranno inoltre testimonianze reali di chi ha vissuto direttamente ed indirettamente la guerra. Conteremo nella presenza e la partecipazione dei mass media, unico strumento per far sentire a tutto il mondo la voce dei giovani, la voce di chi ha il desiderio e la voglia di cambiare il futuro”.(ANSA).

16 GIUGNO


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