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Hanno Scritto di Lui
 

 

Italiani senza confini

di Federico Guiglia

GIANFRACO PAGLIA, EROE NON PER CASO

«Morire per l’Italia? Io, parà in carrozzella, dico che... »

Dice di sé: «Sono contento di andare a testa alta in carrozzella». Gianfranco Paglia, tenente della brigata bersaglieri Garibaldi, quel 2 luglio del ‘93 era ufficiale della Folgore. In Somalia i signori della guerra non accettavano d’essere disarmati. E così, contro i nostri militari inviati a Mogadiscio per portare pace, pane e convivenza, si scatenò l’inferno. L’imboscata provocò la morte di tre soldati italiani e il ferimento di ventidue. Da allora Paglia non cammina più. Ma il senso del dovere e l’amore per la divisa non gli hanno fatto cambiare idee né lavoro. Dunque, è per gente come lui, ed è grazie a gente come lui che la sfilata del 2 giugno è tornata ad avere un senso: esempi al posto della retorica. Da due anni il tenente ha sposato Giovanna, che è di Napoli, come di fatto è diventato anche l’ufficiale, nato a Sesto San Giovanni trent’anni fa.

 


 

Perché s‘era arruolato nella Folgore?

Venivo da un’esperienza nell’Accademia aeronautica, dove stavo facendo il corso come ufficiale pilota. Ma ne sono uscito dopo aver sbagliato un esame in volo. In precedenza avevo già fatto la leva in Marina. Perciò, l’unica arma che offriva la possibilità di fare l’ufficiale, avendo già alle spalle il servizio militare, era l’Esercito. Ma la passione per il volo, la passione operativa, c’erano sempre, quindi decisi di affrontare le selezioni per diventare ufficiale paracadutista. Era il ‘92 e avevo ventidue anni.

La Folgore che cosa ha significato per lei

Un reparto con fortissime motivazioni, costituito da persone che credono in quello che fanno. Un grande valore che veniva, e viene, dato alla parola Patria e alla divisa. Un grosso credo, che è l’opposto dell’esaltazione.

 

 

Prima pilota e poi ufficiale dei parà: che differenze ha riscontrato?

Nel primo caso si è singolarmente responsabili. Al massimo si risponde anche per il proprio navigatore. Con la Folgore c’è uno spirito di squadra, si coman­dano militari nei quali bisogna avere fiducia e vice­versa. Di fatto s’avverte di più il senso del sacrificio. Sono state due esperienze molto diverse: volare con l’istruttore o portare a fare un’esercitazione i propri uomini.

Com‘era la giornata da ufficiale paracadutista?

Quando arrivai al reparto 186, a Siena, si era in procinto di partire per la Somalia. Sveglia alle 6.30, ginnastica individuale per tutte le compagnie schie­rate sul piazzale, doccia, alzabandiera. E poi corse, armeria, ultimi ritocchi per preparare la missione con cura, sapendo che non si andava a fare una pas­seggiata. Si cercava di inquadrare bene gli uomini. Il pomeriggio tutti in aula per studiare le regole d’in­gaggio e prevedere i problemi che si sarebbero potu­ti incontrare: dalle temperature della zona alle cultu­re delle persone, ai pericoli.

 

 

Dimentichi per un momento il grave incidente che ha subito: a che cosa pensa quando pensa alla Somalia?

Dal punto di vista professionale e sotto il profilo umano è stata un’esperienza importantissima. Penso alla fame, alla disperazione dei somali. Bastava aprire una scatola di biscotti e s’avvicinavano in venti. Per una bottiglia d’acqua i bambini facevano quasi a botte, Per distribuire i viveri bisognava tenere la gente. C’era la ressa per ottenere qualcosa da mangiare.

Il suo compito qual era?

Io facevo il servizio Balaad-Mogadiscio e Mogadiscio-Balaad. In sostanza, la sorveglianza di check­point, il controllo sistematico delle persone che passavano per evitare degenerazioni improvvise. Oppure la distribuzione del cibo. Oppure, ancora, i rastrellamenti alla ricerca di armi da sequestrare

 


 

Che cosa accadde quel 2 luglio del ‘93?

Dopo un rastrellamento che avevamo concluso, eravamo sulla strada del ritorno. Ma siamo stati allertati di nuovo, perché c’era un problema al checkpoint Pasta. Quindi, siamo tornati indietro verso Mogadiscio. Eravamo una quarantina di militari. Dopo aver superato alcune barricate con donne e bambini che lanciavano pietre, hanno cominciato a spararci. Hanno così colpito il carro blindato del soldato Pasquale Baccaro, che è morto, mentre il maresciallo Giampiero Monti è stato ferito gravemente e il soldato Massimiliano Zaniolo ha perso le dita. C’era un altro mezzo, il mio, con feriti dentro, e riuscimmo a portarli via dalla zona. Poi, rientrato nell’area di combattimento, hanno bloccato il mezzo davanti ai mio, dove c’era il sottotenente dei Lancieri di Montebello, Andrea Millevoi, purtroppo morto pure lui. Alla fine mi hanno ferito: una raffica dall’alto.

 


 

Ha compreso subito la gravità dell’accaduto?

Sì. La paralisi è stata quasi immediata. Lucido io sono rimasto sempre. Mi hanno portato via col mio mezzo. Prima sono stato ricoverato nell’ambulatorio italiano e poi all’ospedale americano, dove mi hanno salvato la vita. Il proiettile aveva leso il polmone e aveva creato un’emorragia interna. Mi hanno asportato una parte del polmone. Dopo un mese e più avevo chiuso con Mogadiscio. Complessivamente, l’Italia è rimasta impegnata per circa due anni e mezzo.

Avevate un giubbotto anti-proiettile?

Avevamo giubbotti anti-schegge. 

Che vuol dire?

Il tenente ride e spiega: «Vuoi dire che non servivano a niente».

Se avesse avuto il giubbotto giusto...

Stefano Paolicchi, che era degli incursori, aveva il giubbotto antiproiettile ed è morto lo stesso.

Dopo l’incidente come si sono comportati i suoi comandanti?

Mi hanno sostenuto in pieno e in tutto. Nella sfortuna debbo anche dire che ho avuto l’appoggio completo dello Stato Maggiore, che mi copre tutte le spese di questo mondo. Continuo a fare terapie.

Scusi la domanda: lei ha possibilità di tornare a camminare?

Se si inventano qualcosa, sì. Io ho una lesione alla cervicale e alla toracica. Ma prima non utilizzavo neanche le mani, che adesso, invece, ho recuperato all’80 per cento.

 

 

Che idea s’è fatto degli attacchi di cui fu bersagliata la Folgore, nell’estate del ‘97, per la missione in Somalia?

Puro squallore. Hanno cercato di infangare persone che hanno dato tanto e continuano a dare moltissimo alle Forze Armate. Alla fine la commissione fatta dal governo, quindi non certo militare, ha accertato la verità, smascherando le troppe cose non vere che furono dette sul nostro conto.

Qual è la sua opinione sul caso del giovane parò Scieri, trovato morto in una caserma?

Non riesco a comprendere che cosa possa essere successo. Spero sinceramente che si possa accertare la verità in modo concreto e nel più breve tempo possibile. Le Forze Armate sono oggi le prime ad avere interesse nel debellare — se e dove c’è — il nonnismo. Del resto, lo stanno facendo in pieno. Sarà perché ormai ci sono molti professionisti, sarà perché il livello culturale dei ragazzi negli ultimi anni si è elevato moltissimo (la maggior parte di essi è almeno diplomata), ma la realtà è che rispetto al passato le cose stanno davvero cambiando.

Ma le Forze Armate sono oggi valorizzate come meritano oppure no?

Un grosso messaggio l’ha dato il presidente Carlo Azeglio Ciampi con la cerimonia del 2 giugno. Sbaglia chi vede la divisa come emblema dell’essere guerrafondai: non è assolutamente così. Noi si va all’estero per cercare di portare la pace. Non è certo colpa nostra se per cercare di raggiungerla bisogna ricorrere alla forza. Immagini che cosa significherebbe andare in Bosnia con le margherite. Si tornerebbe avvolti nel Tricolore

 

 

Che cosa si potrebbe o si dovrebbe fare per migliorare il ruolo delle Forze Armate?

Alla Difesa stanno facendo molto, cercando di rendere quest’esercito professionista a tutti i costi e nel miglior modo possibile. Passi in avanti non mancano. Purtroppo, quando si continua a tagliare il bilancio, come accade ogni anno, l’impresa di ammodernamento diventa difficile. Ma si sta entrando nella mentalità giusta: oggi tutte le nostre unità operative sono fuori dai confini. E la dimostrazione che le cose sono comunque cambiate.

Lei ha partecipato ad altri interventi dopo quello a Mogadiscio?

Sì, sono andato in Bosnia nel ‘97 per occuparmi del coordinamento fra militari e civili riguardante le locali elezioni, la convivenza fra le genti e gli aiuti umanitari ai rifugiati.

 


 

A un figlio suo raccomanderebbe di fare il soldato, visto che in futuro sarò una scelta, e non più un obbligo?

Il cuore potrebbe dire di sì, la testa potrebbe dire di no, perché in ogni caso sono sempre pensieri. Io il militare lo intendo in un solo modo: sacrificio. Non ci sono tante maniere di indossare la divisa, ce n’è solo una. Di recente, parlando con giovani ufficiali, ho ripetuto una frase in cui credo molto. Fare il proprio dovere dà l’opportunità di guardare negli occhi chi sta di fronte senza abbassare mai lo sguardo. Io non cammino, ma vado a testa alta, a differenza di chi può correre con le proprie gambe, magari alla ricerca di un angolo dove nascondersi. 

Si può morire per l’Italia, oggi?

Le forze dell’ordine lo fanno tutti i giorni.

 

 

Napoli, martedì 18 novembre 2003

E' un giorno molto triste, ma importante, 19 uomini, militari e civili sono stati ammazzati da un gruppo di terroristi una settimana fa ed oggi si sono svolti i funerali di Stato. Non erano nuove le immagini ai miei occhi, 10 anni fa la mia famiglia ed io abbiamo vissuto un episodio simile che per fortuna è terminato nel migliore dei modi, ma ugualmente ci ha tenuti con il fiato sospeso.Oggi era anche lui li a salutare i suoi colleghi . Che forza, che coraggio, ti fan venire la voglia di partire, di esserci, di condividere, ma come potrei , io, così gracilina … anche se in realtà la forza di questi eroi viene solo ed esclusivamente da dentro, dall'anima, perchè ci vuol molto di più di qualche muscolo per portare la Pace. Avrei voglia di scrivere tante belle parole, piene d'amore, ma le sento tutte dentro di me sottovuoto e non riesco ad aprire questo tappo per farle uscire, non so, vorrei trasmetterle ma … non sono rivolte a nessuno, mi riempiono e allo stesso tempo mi angosciano perchè mi sento inoperante, inutile, non so vorrei fare … ma cosa fare, posso solo studiare e decidere con calma il mio futuro. Si è mai detto che una donna può cambiare il mondo? Beh, si dirà, chissà forse sarò proprio io. Quanto è bello sognare, fantasticare, tutti pronti a cambiare il mondo, un giorno in un futuro, mentre oggi i nostri fratelli, muoiono. E' giusto? Cosa è giusto, cosa? Come una canzone ci accompagna in un momento della vita, così questa giornata, ed i sentimenti che ne sono venuti fuori, mi accompagneranno tutta la vita, come sfondo, come colonna sonora, di certi valori, di sacrifici, che non si possono dimenticare e si devono sentire solo come propri, di una comunità, non nazionale ma mondiale che deve e vuole cambiare. Peccato … peccato che spesso gli interessi delle nazioni vanno al di là, al di sopra, ma sarà vero? Beh, questo è quello che molti, alcuni affermano, io sicuramente non ci credo, io credo solo al perchè si sceglie di fare una certa vita, si sceglie di credere nella fede, nella famiglia, nella Pace … e per questo si può anche morire.

Elena Paglia

 

 

Carissimo Gianfranco,

Grazie di essere venuto alla nostra festa in onore del tuo compagno Andrea Millevoi. Ci ha colpito molto il fatto che tu sia venuto a Roma esclusivamente per noi. Facendo la nostra ricerca su Andrea abbiamo conosciuto anche la tua storia e abbiamo subito sentito il desiderio di conoscerti. Per noi sei grande per la enorme forza di volontà che hai dentro di te. In televisione ti avevamo visto un po’ diverso ma con noi ti sei mostrato simpatico, sorridente e semplice. Sei meglio dal vivo!

 
 

”Semplice all’esterno ma grande dentro. Sappiamo che partirai per l’Iraq e ammiriamo il tuo coraggio perché è un posto pericoloso: ancora una volta metterai in secondo piano la tua sicurezza e la tua comodità per essere di aiuto agli altri. Noi bambini di quinta non abbiamo avuto quest’anno l’occasione di intervistarti e il prossimo anno cambieremo scuola. Se tu però verrai a trovare gli alunni della scuola “Andrea Millevoi” saremmo felice di essere presenti. Comunque noi conserveremo sempre come un tesoro il ricordo del nostro incontro, ti saremo accanto con il cuore e quando in futuro ti vedremo ancora (anche in tv!) ti sentiremo nostro amico. Speriamo che anche tu ci terrai in un angolino del tuo cuore! Con tutto il nostro affetto.

Roma, 10 giugno 2003 I bambini delle quinte elementari Della scuola “Andrea Millevoi”

 

 

La Pace

Se vuoi la pace dichiara la guerra al tuo egoismo che vuole tutto per se e non vuol farti vedere il bisogno del fratello. Dichiara ogni desiderio di dominio che vuol farti comandare nel gioco, a scuola, a casa dappertutto …… Se vuoi la pace cerca che tutti attorno a te abbiano il necessario: la gioia di vivere, la possibilità di parlare, lavorare, pregare e amare. Siano liberi come vuoi essere libero tu la pace incomincia da te!!!

DA MARTINO PER GIANFRANCO. AUGURI PER LA TUA MISSIONE

 

 

Sarà un film l'orrore che vissi in Somalia

Iniziano le riprese di “Le ali”, basato sulla vicenda del soldato della Missione Ibis, colpito mentre soccorreva i colleghi.
"Sono condannato alla sedia a rotelle, ma penso sempre ai miei amici uccisi"

Mogadiscio, 2 luglio 1993. Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro, tre militari impegnati in Somalia nella Missione Ibis, vengono uccisi nell’agguato sferrato dai miliziani somali alle truppe italiane, in quella che è passata alla storia come battaglia del pastificio, dal nome del vicino check point. Un altro militare, Gianfranco Paglia, sottotenente della Folgore, viene gravemente ferito. Una pallottola lo colpisce alla colonna vertebrale. Perde l’uso delle gambe, ma non la voglia di tornare ad avere una vita normale. Paglia, che nel frattempo si è sposato ed è diventato padre di due bambini, è stato reintegrato a pieno titolo nell’esercito ed è stato cinque volte all’estero in missioni umanitarie. La sua storia, e quella dei ragazzi della Ibis, sta per diventare un film. Prima di accettare l’idea del film ci ha pensato molto. Poi c’è stato l’accordo con la Good Time, la casa di produzione che il 10 marzo, per Rai Fiction, inizierà le riprese del film Le ali. Ci ha riflettuto a lungo, perché Gianfranco è un uomo che sfugge il presenzialismo e la notorietà. E’ timido, riservato. Le lentiggini che coprono il suo volto, e che gli danno un’aria da ragazzino insolente, nascondono a mala pena il rossore quando gli chiede perché, nel 1993, tutti avevano parlato di lui come un eroe. "Non lo deve chiedere a me", risponde. "Non mi sono mai sentito un eroe, anzi. Il mio rammarico è sempre stato quello di non essere riuscito a portare in salvo tutti. Io sono tornato a casa con le mie gambe…

 

Non in una bara avvolta dalla bandiera tricolore. Non riesco a dimenticare il volto di Pasquale Baccaro mentre cercavo, inutilmente, di fermare l’emorragia". Eppure, Gianfranco eroe lo è stato davvero, perché i tre proiettili lo hanno colpito mentre soccorreva i colleghi rimasti intrappolati nella zona dei combattimenti. In qui momenti, ricorda, non pensi che stai correndo dei rischi. Non pensi alla vita. Stai solo cercando di aiutare i compagni. Avevo 23 anni quando sono partito per la Somalia. Appena arrivato a Mogadiscio mi era sembrata una città bellissima, anche se distrutta. Poi si è trasformata in un inferno. Ho ancora davanti agli occhi quella scena, quel gruppo di civili che si erano parati davanti ai blindati italiani per rallentarne la marcia, consentendo ai miliziani di far scattare l’agguato: c’erano anche donne e bambini che solo il giorno prima ci avevano sorriso quando li abbiamo incontrati per la strada. Del resto, uno dei nostri compiti principali era di occuparci della gente, di alleviare la fame e la miseria di quella popolazione distribuendo viveri e beni primari. L’altro era di rastrellare le armi agli uomini di Aidid e Alimandi, i signori della guerra, i capi delle due fazioni che avevano ridotto il paese in uno stato di disperazione e povertà assoluta.

 

Avevamo appena concluso un’importante operazione sequestrando un grosso quantitativo di armi. Probabilmente l’agguato è stato una rappresaglia. Ma già nei giorni precedenti si percepiva che il clima era cambiato. I bombardamenti degli americani e il massacro dei 28 pakistani avevano incrinato i rapporti tra le truppe dell’Onu, di cui facevamo parte, e i somali. Il giocattolo si era rotto. Come la sua spina dorsale. Il proiettile che l’ha colpito alla schiena ha tranciato il midollo spinale, interrompendo il circuito nervoso che comanda i movimenti.

 

All’inizio riuscivo a muovere solo la testa. E’ stato grazie alla fisioterapia fatta in un centro svizzero che sono riuscito a riprendere l’uso della parte superiore del corpo. Certo, si possono avere a disposizione le cure migliori e più costose del mondo, ma a nulla servono se dentro non c’è la voglia di andare avanti. Il mio carattere è stato la marcia in più. Quel giorno, a Mogadiscio, stavo solo facendo il mio dovere. Quando ti arruoli e decidi di dedicare la tua vita agli altri indossando una divisa, sai che vai incontro a molti rischi. Lo Stato maggiore dell’Esercito mi ha dato tantissimo, non finirò mai di ringraziarlo, soprattutto, per avermi permesso di tornare a indossare la divisa, per continuare a fare il mio lavoro. Dopo l’incidente sono stato diverse volte in missione all’estero: Bosnia, Libano, Iraq e due volte in Kosovo. Oggi, come prima del 1993, mi occupo degli aspetti umanitari. Sulla sedia a rotelle, ma con il fucile sempre in spalla, perché si tratta pur sempre di zone di guerra. Ma c’è anche qualcun altro cui Gianfranco si sente di dire grazie: a Giovanna, mia moglie. Avevo 14 anni quando ci siamo fidanzati, vedermi tornare in barella, con la prospettiva di non poter camminare mai più, è stato un duro colpo anche per lei. Insieme abbiamo imparato a convivere con il mio handicap fisico in maniera normale, a non farci travolgere dalle difficoltà.

 

Ci siamo sposati nel 1998, abbiamo messo al mondo due bambini meravigliosi: Vittoria, 6 anni, la mia principessa, e Antonio, che è nato appena tre mesi fa. In fondo non è cambiato molto nella nostra vita di coppia: continuo a non essere quasi mai a casa, come accadeva prima dell’incidente. Una casa, quella di Gianfranco Paglia, che in questi giorni riceve delle visite speciali. Quelle di Ciro Esposito, l’attore napoletano che gli darà voce e volto nel film: "So che parleremo a lungo, devo riuscire a spiegargli fino in fondo cosa vuol dire convivere con una carrozzina. Non è facile imparare a escludere una parte del tuo corpo facendo tutto il resto con quello che rimane. Ma forse la cosa più difficile sarà fargli capire che non sono una persona speciale: sono un uomo come tanti altri". E non sarà facile nemmeno riportare sullo schermo tutta la luce che c’è negli occhi di Gianfranco, capace di esprimere forza, determinazione, voglia di continuare a combattere per chi non ha nulla.

Cristina Pace per "Gente" 13 Marzo 2008

 

 

Il giorno più lungo

Un’imboscata in Somalia, e il sottotenente Paracadutista Gianfranco Paglia perde l’uso delle gambe.
Oggi, la sua battaglia è in Parlamento. Roba da fiction….

2 Luglio 1993. Gianfranco Paglia, sottotenente dei paracadutisti, è in Somalia in missione di pattuglia. Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro perdono la vita proprio quel giorno in un’imboscata dei miliziani somali presso il check point Pasta, nel centro di Mogadiscio, primi morti italiani in combattimento, dopo la Seconda guerra mondiale, e sono 36 i feriti. Gli uomini di Gianfranco sono immobilizzati su un mezzo blindato colpito da un missile anticarro. Lui non esita e si butta in mezzo al fuoco dell’imboscata per portare in salvo i suoi, coprendone la ritirata. Tre pallottole partite da un Kalashnikov lo colpiscono, una gli spezza la spina dorsale. Lì inizia la sua più grande scommessa, quella per tornare a muoversi. Prima va in Svizzera, al centro di fisioterapia di Nottwill, poi a Mosca, in un centro specializzato sulle lesioni midollari, e prosegue la riabilitazione a Firenze. Da allora comincia una nuova vita su una sedia a rotelle. Ma la sua forza e i suoi ideali non hanno cedimenti. Sostenuto soprattutto dalla moglie e dai figli, Gianfranco Paglia ora è maggiore dell’esercito italiano e deputato di Alleanza nazionale in parlamento. Non ha mai rinunciato a lottare per riconquistare la posizione eretta, e la sua battaglia la combatte anche in parlamento, dove spera di riuscire a rendersi utile per chi è stato meno fortunato di lui.

 

Dice spesso di essere un uomo fortunato. Cosa significa?

Lo sono senz’altro! Grazie allo Stato Maggiore dell’Esercito sono stato nei migliori centri di riabilitazione: l’ho potuto fare perché avevo l’istituzione militare alle spalle. Fondamentalmente è sentire l’affetto della famiglia. Ma penso soprattutto a chi si trova a vivere gli stessi problemi senza altrettanta fortuna.

I momenti più brutti e più belli dopo lo scontro?

Il più brutto è di aver perso i propri uomini, non essere riuscito a fare qualcosa in più per loro. I più belli essere tornato a casa, poter indossare l’uniforme di nuovo e continuare a fare quello in cui ho sempre creduto. Aver perso qualcuno è la cosa più difficile da accettare, anche se si ha la consapevolezza di aver dato il massimo e fatto tutto il possibile.

Cosa ricorda di quei momenti?

Sono attimi che ricordi dall’inizio alla fine e che restano tuoi. Volevo restare sveglio. Pensavo al ritorno alla base, e ai miei uomini. Ero preoccupato per loro.


 

E’ cambiato dopo questa esperienza?

Caratterialmente mi ha indurito un po’. E nell’affrontare le cose sono più crudo, essenziale. Quando si vivono esperienze così ci si rende conto di cosa è veramente importante. Ma sono lo stesso di prima.

Come ha reagito alle notizie dei medici? Dove ha trovato le forze?

Non potevo assolutamente accettare ciò che mi veniva inizialmente detto dai medici, che sostenevano che non mi sarei più mosso dal letto. E i fatti mi hanno dato ragione. La volontà di vivere e stare bene insieme all’affetto dei cari e alla presenza costante dell’Esercito sono stati fondamentali. E’ importante trovare nuovi stimoli, diventare indipendenti, e voler migliorare il proprio corpo indipendentemente dall’handicap. Sono contento dei risultati.

 



"Ogni volta che ho l’opportunità di parlare alla gente cerco di far capire che non sono un’icona né un idolo, ma uno dei tanti. Questa è la mia più grossa battaglia"

Le è stata dedicata una fiction, Le ali, che andrà in onda in autunno sulla Rai. Che effetto le fa? Andrea Porporati, autore e regista, è rimasto affascinato dalla sua semplicità ma anche sconcertato dalla sua candidatura per AN.

Andrea e io abbiamo idee diverse. Ci siamo molto presi in giro su questo, ma sempre scherzando. In campagna elettorale poi ho voluto evitare in tutti i modi che si parlasse della fiction, per evitare strumentalizzazioni. Ci sono riuscito e questo mi fa piacere. Sono sicuro che è stato fatto un buon lavoro e Andrea, giustamente molto esigente e pignolo, ha fatto una ricostruzione fedele. In una fiction poi è naturale raccontare i fatti in modo un po’ romanzato. Ho messo il rispetto per le vittime prima di tutto. Ho chiesto il benestare ai parenti e ho voluto fosse fatta una donazione al fondo per i familiari dei caduti. Li ho tenuti in sospeso per cinque anni. Alla fine ho accettato perché spero possa essere utile a ricordare chi non c’è più.

In Somalia c’è di nuovo tensione. Ci tornerebbe in missione?

Me lo sono chiesto spesso. Ed è l’unica domanda a cui non ho saputo dare risposta. Riuscirei a essere obiettivo e razionale? Forse alla fine sì. Se sei troppo coinvolto emotivamente temi di avere una reazione sbagliata che non ti puoi permettere, anche perché rappresenti l’Italia. Sarebbe un errore.

È servita la missione Ibis?

Vedere i bambini andare a scuola e vedere la gente che riprendeva a vivere era bello, importante. Penso che se poi non abbia avuto i risultati sperati è anche perché è finita troppo presto. Oggi ci si rende conto che una missione finisce solo quando gli obiettivi sono raggiunti.

Cosa significa oggi essere militari di professione? E cosa spinge i giovani a diventarlo?

Una differenza enorme rispetto a quando ho iniziato io. Ora lo spirito di corpo è radicato in tutte le forze armate. Sono ragazzi e ragazze che credono in valori come l’amor di patria, la correttezza. È un errore pensare che lo facciano per soldi o per mancanza di posti di lavoro. Stare lontani da casa e rischiare la vita comporta grossi sacrifici. Sai di rappresentare qualcosa, ci credi, giuri fedeltà alla patria, fino all’estremo, consapevole dei rischi.

Cosa direbbe a chi lotta quotidianamente con l’infermità?

I problemi sono tanti, me ne rendo conto ancora di più ora come parlamentare. E spetta allo stato farsene carico. Troppe le famiglie abbandonate a se stesse, ma c’è anche una mentalità chiusa e difficoltà ad accettare il familiare portatore di handicap. In Italia si vedono pochi disabili in giro, non solo per le barriere architettoniche ma anche perché si tende a tenerli nascosti. Invece all’estero c’è una maggiore accettazione sociale del fenomeno.


 

Vede insofferenza o ostilità?

Credo sia più ignoranza. Preferisco credere nella buona fede della gente, che a volte non si rende conto dei problemi dei disabili.

Per i disabili esiste una rete di solidarietà?

Esiste ma non basta. È necessaria maggiore presenza dello Stato. Non è mai abbastanza. È giusto cercare di fare di più, ma far rispettare le leggi esistenti sarebbe già un passo importante, poi fare in modo che lo Stato investa di più. Ileana Argentin (Pd) e gli altri deputati portatori di handicap hanno come me grande grinta e voglia di fare e sono stati eletti perché in possesso “degli attributi”, non certo perché portatori di handicap.

Cosa pensa di Oscar Pistorius, l’atleta che senza le gambe sogna di partecipare alle Olimpiadi?

Con la volontà e la forza d’animo si può fare tutto, ed essere seguiti e avere intorno una struttura come la sua, che non è certo da tutti, fa tanto. Auguro a Pistorius di vincere questa battaglia, non sono convinto che le protesi lo avvantaggino. Vuole solo essere trattato come una persona normale, e così andrebbe accettato.

Un consiglio per chi non riesce a superare un momento difficile.

Non do consigli per carattere. Dico solo di essere se stessi e di non arrendersi mai. Sostenere le proprie idee sempre con rispetto verso tutti. L’importante è non fermarsi mai. Adattarsi, ma non fermarsi.

La sua grande fortuna?

Vivere.

Ivan De Mitri per "For Men"

 
 

 

 

Discorso del Ministro della Difesa On. Arturo Parisi

Cari Allievi e care Allieve del 188° Corso, permettetemi, ora, di rivolgere il mio saluto doveroso e allo stesso affettuoso, al vostro Padrino, il Padrino del vostro corso: il Capitano Gianfranco Paglia, Medaglia d’Oro al Valor Militare, gravemente ferito nel corso della missione in Somalia nel 1993 da Comandante di plotone. Ho voluto unire il pensiero che a lui rivolgo , con rispetto e gratitudine per la sua presenza, a quello che rivolgo a voi che siete, futuri Comandanti di plotone, all’inizio di una carriera prestigiosa, ma anche impegnativa, complessa, come è quella di un Ufficiale. Ebbene il coraggio si rafforza acquisendo fiducia in se stessi e alimentando la fede nei valori che guidano nel suo profondo la nostra vita, la vostra vita. Prendete in questa ricerca a riferimento la figura di Gianfranco Paglia, esemplare nel momento drammatico del combattimento ed esemplare, ora, nella serena testimonianza dei suoi valori in una condizione di difficoltà. Rivivete con lui la prova di quella drammatica mattina di Mogadiscio del 2 luglio del 1993 quando a ventitre anni non ancora compiuti, da Comandante responsabile di altri uomini, fu chiamato a dar prova delle sue conoscenze, delle sue competenze e soprattutto delle sue convinzioni.

Ripercorrete, sul filo della motivazione che ci è stata appena letta, il cammino che sta alle spalle dei suoi atti, della sua linea di azione, della intelligenza e perizia con cui si adopera con le forze alle sue dipendenze allo sganciamento dei carri rimasti intrappolati nell’abitato, allo sgombero dei militari feriti, al coordinamento dell’azione dei suoi uomini mentre contrasta con l’armamento di bordo l’incessante fuoco dell’attacco nemico. Ripensate al coraggio col quale, per rafforzare l’efficienza della azione, si sporge fuori dal suo mezzo esponendosi al tiro dei cecchini e alla serenità con la quale reagisce alla notizia che le lesioni riportate gli avevano procurato menomazioni permanenti.

Imparate, impariamo dal suo esempio, dal suo altruismo, coraggio, dal suo senso del dovere e dalla saldezza del suo animo, come abbiamo appena letto, ancora una volta la motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare che a lui è stata conferita. Il suo coraggio ci ricorda che la stagione dell’eroismo non è una stagione passata, che gli eroi di oggi sono uguali a quelli di sempre: non semplici vittime, innocenti ma inconsapevoli, di eventi o di azioni altrui, ma uomini e donne che mettono consapevolmente a repentaglio la propria vita per gli altri, per un ideale, per dei valori. Gli stessi valori che in quella calda mattina di Mogadiscio guidava l’azione del sottotenente Paglia e dei suoi uomini al servizio della pace in nome dell’Italia in una operazione voluta dalle Nazioni Unite, quegli stessi valori guidano oggi l’azione dei militari che in nome della Repubblica difendono da militari la pace in tante parti del mondo.

16 MARZO 2007

 

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